Un estratto da Chariza. Il soffio del vento
Suzume alzò lo sguardo su di lei per ringraziare, ma le parole gli morirono sulle piccole labbra. Yukai si destò dalla concentrazione della partita e seguì lo sguardo del Principe. Entrambi rimasero ammutoliti a guardarla come se la vedessero per la prima volta, ma fu Suzume, con la sincera innocenza dei fanciulli, a dare voce ai pensieri di entrambi.
«Ma sei bellissima!»
Chariza lo guardò sorpresa, ma si limitò a inchinarsi al complimento del Principe. Non aveva fatto altro che lasciare i lunghi capelli corvini sciolti lungo la schiena, invece che intrappolarli in una crocchia come faceva di solito, ma quell’insignificante accorgimento la rendeva meno severa e ancor più affascinante e misteriosa.
Yukai credette di trovarsi di fronte alla reincarnazione di qualche Dea antica. La pelle di Chariza era bianca come polvere di madreperla, l’arco delle sottili sopracciglia nere era perfetto, il mento forte e volitivo, e lo sguardo eterno come quello di una statua.
Yukai non aveva più dubbi riguardo ai suoi sentimenti e alla strada che avevano imboccato. In principio tutto ciò che aveva visto in lei era stata l’abilità del guerriero che lui avrebbe voluto essere, aveva assaporato quell’aria di elegante minaccia che si respirava attorno a lei ogni volta che impugnava Kageboshi, aveva tremato di desiderio incrociando la fredda sicurezza dei suoi occhi. Ma ora che la vedeva così, apparentemente indifesa e comunque pericolosa, non poteva negare che era stata la sua bellezza, simile a quella d’un petalo di ciliegio coperto dalla neve, a turbarlo più di quanto non avesse fatto la risoluta ferocia della sua abilità di combattente. Anche se Chariza fosse stata una delicata peonia coltivata nel giardino dell’Haru-in, invece che il resistente fiore della magnolia sempreverde, lui ne sarebbe stato inevitabilmente rapito.
Lei allungò il collo come una giovane gru e mosse il capo come se stesse annusando l’aria; si alzò con un fluido, elegante movimento che lasciò Yukai senza fiato, e si diresse verso la finestra. L’uomo e Suzume la seguirono con lo sguardo, rapiti dal suo fascino glaciale. Lei aprì il pannello della finestra e si appoggiò al davanzale, sporgendosi per guardare il cielo carico di nuvole grigie.
Yukai e Suzume si strinsero nelle vesti.
«Ma che fai? Si gela questa notte!»
Lei si voltò con un sorriso raggiante. «Venite a vedere!»
Suzume scrutò l’oscurità oltre il corpo della donna e la raggiunse correndo, inginocchiandosi accanto a lei, con il naso rivolto al cielo e lo sguardo sognante. «Nevica!»
Yukai si mosse più lentamente, ma li raggiunse. La finestra della stanza era troppo piccola perché potessero affacciarvisi in tre comodamente, e così lui fu costretto dalle circostanze a restare molto vicino a Chariza. Lei raddrizzò la schiena e sollevò il mento per osservare le sinuose spirali di neve, ma nel compiere quel movimento sfiorò con la spalla il petto di Yukai. L’uomo per un attimo fu tentato di ritrarsi, ma quando Chariza quasi si appoggiò a lui, si abbandonò a quel contatto e lasciò che il calore del corpo della donna si diffondesse in lui.
Chariza allungò una mano. I fiocchi di neve cominciarono a depositarsi sul suo palmo come petali bianchi.
«Un’ombra di gelo» sussurrò lei.
Lentamente, la neve che, sulle mani di qualsiasi altro essere umano, si sarebbe sciolta al contatto con il calore emanato dal corpo, cominciò a posarsi come avrebbe fatto su una gelida roccia.
Suzume ammirò, sbalordito, quel piccolo prodigio, mentre la neve continuava ad accumularsi sulla mano di Chariza. «Come fai?» domandò il bambino, pieno di meraviglia.
Lei rovesciò il palmo lasciando cadere i petali di neve. «Un giorno ti insegnerò» rispose, ma il suo sguardo e la sua mente erano lontanissimi da quella stanza.
Il ricordo del giorno in cui il Maestro, il Drago Bianco, le aveva insegnato, quasi per gioco, a controllare le energie del suo corpo, così da poter controllare il calore come il respiro, la fame come la sete, la riempì di malinconia. Ora tutti quegli insegnamenti, che l’avevano resa la migliore tra le figlie del Drago Bianco, servivano solo a domare un’avidità opprimente.
Nevicava anche il giorno in cui si era recata alla grotta di Shen-dao per ottenere la spada. Per questo lei era stata Ombra di gelo, e per questo aveva chiamato la sua spada come l’antica arma delle leggende, perché la sua lama era bianca come la neve e portava il gelo nel cuore dei nemici. Kageboshi.
C’era stato un tempo in cui era stata felice e non era stata avida, ma era stato prima che la maledizione la colpisse, prima che perdesse la fiducia nell’Alleanza. E ora guardava la neve cadere e immaginava che ogni fiocco fosse una delle ragazze con cui era cresciuta e che ancora servivano il Drago Bianco al monte Tōmei, mentre lei se n’era andata.
Non era la prima volta che dubitava della sua scelta, accadeva spesso quando arrivava l’inverno e i ricordi la rendevano malinconica, ma quell’anno sembrava che la neve volesse stringerla più che mai nella sua morsa.
Cosa sarebbe diventata se fosse rimasta al monte Tōmei? Non sarebbe stata Chariza la ladra, l’assassina e la mercenaria, ma non sarebbe più potuta neppure essere Chariza la figlia prediletta del Drago Bianco, non con il marchio della maledizione. E anche se, a volte, pensava che quel che aveva fatto non fosse stato poi così sbagliato, perché ubbidire agli ordini di un Drago è il primo dovere di una Combattente, si rendeva conto che, anche se avesse disubbidito, le cose non sarebbero cambiate, perché in ogni caso lei sarebbe stata punita e forse scacciata. Non aveva avuto scelta allora e non ne aveva adesso. Quando il Drago Bianco le aveva ordinato di sottrarre il Calice dal tempio della Madre, la dea Sole, le aveva assicurato che era per garantire il futuro dello Si-hai-pai. Quando il Drago d’Oro le aveva imposto l’incarico di proteggere Suzume non le aveva forse detto la stessa cosa?
Solo quando aveva incontrato Shen-dao, in una mattinata nevosa, Chariza aveva avuto una reale possibilità di scelta. Poteva prendere la spada e giurare di custodirla, oppure lasciarla dov’era e attendere che a qualche altra Combattente fosse affidata quella prova. E lei aveva scelto, ma allora non aveva idea che sarebbe stata maledetta dall’avidità e che non sarebbe più stata una Combattente della Trasparenza.