Lunedì incipit
CHARIZA. IL SOFFIO DEL VENTO
La cortina di pioggia incessante impediva di distinguere i contorni del mondo. Da giorni, forse da intere settimane, continuava quel maltempo umido e grigio. Il cielo non si era più aperto e tra i contadini c’era chi bisbigliava che la dea Sole fosse irata col popolo dello Si-hai-pai e non sarebbe più apparsa in cielo.
Le nuvole, spesse e cineree come cotone usato dal carbonaio per detergersi il viso, fluttuavano sopra le valli e accarezzavano le cime dei monti più alti, ancora agghindate con il loro candido vestito invernale. Una nebbia bianca e compatta si insinuava tra i tronchi dei grandi pini e nelle foreste di bambù che ricoprivano i fianchi delle colline; come una valanga di umida foschia scendeva verso le valli sottostanti, in cui le risaie non riuscivano più ad arginare l’acqua eccessiva che aveva sommerso più del necessario i fragili steli del riso appena trapiantato. Le gocce di pioggia battevano sulla superficie dell’acqua con un suono martellante e continuo che era divenuto il sottofondo della vita dei contadini disperati, che già contavano i danni causati da quel nuovo diluvio. Nessuno osava uscire dalla propria casa se non per necessità, poiché le strade si erano mutate in fiumi di fango giallastro che si snodavano sinuosi confondendosi con i canali dritti e ben costruiti, le cui chiuse erano state tutte aperte nella speranza di far fluire più rapidamente quella immensa quantità d’acqua.
Un alito di vento agitò gli steli verdi del riso, facendoli piegare fino a immergere la testa delle spighe nell’acqua sporca. Un suono ritmico, come il battito di un cuore agitato, si sovrappose al familiare ticchettio della pioggia, e dalla bruma che si levava dalla strada emerse la sagoma scura di un cavaliere, che piegato sulla sella spronava e incitava il cavallo con grida e insulti che si perdevano nel frastuono degli zoccoli che affondavano, rischiando spesso di scivolare, nel terreno fangoso e insicuro. Il mantello di paglia, che aveva indossato per proteggere quello di stoffa nera, di cui si intravedevano i lembi agitati dalla furia della sua cavalcata, era lacero in più punti e a stento tratteneva le gocce; i pantaloni scuri e larghi avvolgevano completamente le gambe, ed erano macchiati del fango che schizzava in ogni direzione insozzando anche le zampe dell’animale, che galoppava come se alle sue spalle ci fossero tutti i demoni degli inferi a inseguirlo.
Improvvisamente una vipera acquatica scivolò fuori dalla sua tana e attraversò la strada proprio di fronte al frettoloso viaggiatore. Il cavallo, impaurito, si impennò nitrendo e sbuffando, rischiando di cadere all’indietro sopra il suo cavaliere, il quale però si afferrò saldamente alle redini e avvolse con i polpacci il ventre dell’animale ricordandogli i suoi doveri, poi si piegò verso le orecchie del cavallo, completamente abbassate contro la testa, e gli sussurrò qualche frase gentile che lo calmò in pochi istanti. La bestia, di nuovo docile e ubbidiente, tornò a poggiarsi sulle quattro zampe, e il contraccolpo fece sobbalzare il cavaliere e spezzare il laccio del suo cappello di paglia a tesa larga. Il copricapo cadde a terra liberando una folta chioma di capelli neri che si agitò sinuosa nell’aria, come le onde del mare in tempesta. Lei non ci badò e colpendo il costato del cavallo lo convinse a riprendere la marcia accelerando ulteriormente l’andatura.
Chariza alzò gli occhi verso il cielo e si strinse nel mantello pesante di stoffa scura, poi si voltò per controllare che il suo compagno di viaggio non fosse rimasto troppo indietro. Sbuffò, perché il paesaggio, che sembrava non voler cambiare mai, le faceva provare una spiacevole sensazione di fastidio fisico data dall’impressione di avanzare troppo lentamente. Tirò le redini del cavallo per farlo rallentare un poco in attesa del messaggero che la accompagnava, finché questi non comparve da una curva della strada.